Nella cappella detta «degli Illustrissimi», posta all'estremità del braccio settentrionale del transetto dell'attuale duomo di Santa Maria Assunta a Napoli e in contrapposizione alla cappella gentilizia dei Minutolo, si conserva sull'architrave marmoreo della porta nord un pregevolissimo, e ancora poco studiato, disegno a monocromo con Storie della Passione di Cristo di conclamata referenza trecentesca (Figs 1–2). Il disegno consta di quattro scene leggibili da sinistra a destra: Cristo schernito e spogliato delle vesti, Flagellazione, Andata al Calvario e Deposizione (Fig. 3); la prima e l'ultima hanno larghezza maggiore rispetto alle restanti. Sulle mensole d'imposta dell'architrave è presente un’Annunciazione con probabile offerente, realizzata sempre a monocromo. Lo stato di conservazione non è dei migliori, come si ricava dalle molteplici abrasioni presenti sul marmo, dal deperimento del segno grafico conseguente all'alterazione dei pigmenti, dalle stuccature e dalle imbiancature dovute a grossolani interventi edilizi e dai depositi di polvere e fumo di candele. Tale degrado, associato alla scarsa menzione da parte della critica, è incomprensibile in ragione dell'elevata qualità esecutiva dell'opera e del suo raffinato livello d'invenzione. La bibliografia, ad oggi, conta tre soli interventi: una breve descrizione di Pierluigi Leone de Castris, che – nella sua Arte di corte nella Napoli angioina (Reference Leone de Castris1986a: 416–17) – definisce l'opera «il capolavoro più alto della congiuntura Napoli-Avignone», una citazione da parte di Ferdinando Bologna, che – nell’Enciclopedia dell'arte medievale (Reference Bologna and Romanini1991, I: 687) alla voce Angioini, pittura e miniatura – si limita ad ascrivere il disegno a «maestri formatisi ad Avignone» ed operanti a Napoli, e una fugace menzione di Francesco Aceto e Paola Vitolo, che - nella loro Architettura e arti figurative di età gotica in Campania (Reference Aceto and Vitolo2017, I: 128) - parlano di «un disegno di altissima qualità […] nel quale è stato visto l'intervento di un artista ben addentro alla cultura avignonese in senso martiniano degli anni Quaranta del secolo».
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Fig. 1. Napoli, duomo, cappella «degli Illustrissimi»: veduta in corrispondenza della porta nord. (T. De Giorgio.)
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Fig. 2. Napoli, duomo, cappella «degli Illustrissimi»: porta nord. (T. De Giorgio.)
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Fig. 3. Napoli, duomo, cappella «degli Illustrissimi»: architrave della porta nord con Storie della Passione e Annunciazione con offerente. (T. De Giorgio.)
Scopo principale di queste pagine è di presentare in dettaglio le Storie della Passione muovendo dal loro contesto di produzione per fornire una corretta e approfondita lettura iconografica dei singoli episodi e per individuare le fonti visive alla base della rappresentazione.
Prima di procedere, tuttavia, è fondamentale ripercorrere i fatti che hanno portato la cappella ad assumere l'aspetto attuale. Eretta secondo il Sersale (Reference Sersale1745: 18, 20) intorno al 543 dall'arcivescovo Giovanni II (533-555) al capo della navata laterale destra della Stefania e in origine intitolata a San Lorenzo martire,Footnote 2 la cappella, a seguito dell'edificazione del nuovo duomo angioino, venne cospicuamente rimaneggiata al principio del XIV secolo,Footnote 3 dopo il completamento della zona presbiterale, dall'arcivescovo Humbert d'Ormont (1308–1320), borgognone eletto «de gremio Capituli» (Fonseca, Reference Fonseca2003: 228), che la reintitolò – in ossequio alla dedicazione a San Pietro della simmetrica cappella Minutolo – all'apostolo Paolo con l'istituzione del beneficio di «San Paulo de Humbertis».Footnote 4 La cappella venne provvista di quattro accessi che la collegavano a oriente col duomo, a occidente col cortile del palazzo arcivescovile, a meridione con l'esterno e a settentrione, tramite la già citata porta nord, con un piccolo ambiente destinato a sacrestia (Fig. 4). Al termine dei lavori, il vescovo fece apporre nelle due chiavi delle volte a crociera costolonata l'arme della propria famigliaFootnote 5 e quella del connazionale Ayglerius (1267–1282), «suo predecessore e consanguineo» (D'Engenio Caracciolo, Reference D'Engenio Caracciolo1623: 30; cf. Chioccarello, Reference Chioccarello1643: 178; Summonte, Reference Summonte1675: 380). Nella prospettiva che il transetto della cattedrale angioina fosse – come condivisibilmente sostenuto dalla Romano prima (Reference Romano and Michalsky2001: 198-202) e dalla Bruzelius poi (Reference Bruzelius2005: 107-8) – destinato alla celebrazione del tema episcopale e, al tempo stesso, delle origini apostoliche della chiesa napoletana (prova ne sia la collocazione ai due lati dell'abside delle cappelle riservate, a destra, al protovescovo Aspreno, battezzato da Pietro, e, a sinistra, al vescovo carolingio Atanasio) (Bacco e D'Engenio Caracciolo, Reference Bacco and D'Engenio Caracciolo1616: 45; Celano, Reference Celano1970: 199 sgg.; Summonte, Reference Summonte1675: 345; Bock, Reference Bock, Romano and Bock2002: 135), con la fondazione dei propri sacelli il Minutolo e il d'Ormont vollero de facto elevare se stessi al livello dei propri predecessori. Nella strategia socio-politica del d'Ormont, che in virtù dell'amicizia di vecchia data con Carlo I d'Angiò e della posizione di consigliere particolare di Carlo duca di Calabria godeva del favore reale, la sua cappella doveva essere il luogo di sepoltura privilegiato degli arcivescovi francesi fedeli alla dinastia angioina e degli ecclesiastici più illustri tumulati nella demolita Stefania: nel 1315 venne sistemato il monumento funebre di AygleriusFootnote 6, primo arcivescovo angioino, nel 1318 quello di papa Innocenzo IV,Footnote 7 morto a Napoli il 7 dicembre 1254 (Pagnotti, Reference Pagnotti1898: 119), e nel 1320 quello dello stesso committente, che per sé volle una semplice lastra tombale.Footnote 8 Sui sarcofagi lunghe iscrizioni latine celebravano le virtù dei defunti e riconoscevano a «Humbertus metropolita» il merito di quelle solenni traslazioni (Romano, Reference Romano, Romano and Bock2002: 19, n.43).Footnote 9 Il d'Ormont provvide quindi alla realizzazione di un dignitoso apparato figurativo, ispirato al mistero dell'incarnazione di Cristo, che prevedeva sulla parete di ingresso in chiesa il maestoso affresco con l’Albero di Jesse di mano – secondo Bologna – del cosiddetto Lello da Orvieto (Fig. 5) (Bologna, Reference Bologna1969: 126-32),Footnote 10 fantomatica personalità artistica alla quale – sempre secondo lo studioso – il Capitolo del duomo avrebbe commissionato intorno al 1320 anche il presunto ritratto funerario su tavola dell'arcivescovo borgognone, a mezzo busto e su fondo oro, sormontato da una cuspide con l'effige di san Paolo e munito di una perduta predella con arme gentilizia,Footnote 11 da collocare nella cappella al di sopra della lapide del defunto (Fig. 6) (Bologna e Doria, Reference Bologna and Doria1954: 3-4; Bologna, Reference Bologna1969: 127).Footnote 12 Sull'altare principale, come rilevato da Bologna (Reference Bologna and Leone de Castris1988), doveva esservi una pala mariana, la cui tavola centrale lo studioso ha riconosciuto nella Madonna col Bambino della Galleria Lorenzelli di Bergamo, da lui attribuita ancora una volta a Lello da Orvieto.Footnote 13 L'insolita collocazione dell’Albero di Jesse in un contesto di pertinenza privata è apparentemente inspiegabile, a meno di non considerare l'opera nella sua valenza simbolica – comune nella Francia del tempo – di esaltazione dell'istituto monarchico. D'altronde, se scopo di questa tipologia di immagine era di “certificare” l'esistenza storica di Gesù Cristo a beneficio della gran mole illetterata dei fedeli, la sua collocazione in un simile contesto doveva assolvere una specifica funzione di omaggio nei confronti dei sovrani angioini, che nell'albero genealogico del Salvatore vedevano confermata, nei re Davide e Salomone coronati e con indosso vesti sontuose, la sacralità del loro potere dinastico. Tale soluzione, suffragata dal ben noto sodalizio tra monarchia e curia nell'erezione della nuova cattedrale, nonché nella messa in opera dei singoli arredi liturgici e degli apparati celebrativi (decorazioni pittoriche comprese), trova conferma nella rappresentazione dei regnanti angioini nelle sembianze dei re biblici, come accade nella Bibbia miniata di Niccolò di Alife, conservata nella biblioteca della facoltà teologica di Lovanio (Bibliotheek Faculteit Theologie, MS Lat. 1, fol. 158v), dove Roberto d'Angiò è rappresentato nelle vesti di Salomone.Footnote 14
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Fig. 4. Pianta delle due antiche e odierna cattedrale di Napoli. (Sersale, Reference Sersale1745: tav. 30.)
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Fig. 5. Lello da Orvieto (attribuito), Albero di Jesse, affresco, Napoli, duomo, cappella «degli Illustrissimi». (T. De Giorgio.)
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Fig. 6. Lello da Orvieto (attribuito), Ritratto dell'arcivescovo Humbert d'Ormont e san Paolo, tempera e oro su tavola, Napoli, Museo diocesano. (C. Raso.)
L'attuale aspetto della cappella, non più conforme a quello originario, risente dei pesanti rimaneggiamenti operati tra XVI e XVII secolo: entro il 1560 il sepolcro di Innocenzo IV era stato sistemato, in larga parte alterato, appena fuori del sacello, dove si trova tuttora;Footnote 15 nel 1574 la sepoltura del d'Ormont venne smantellata per volere dell'arcivescovo Mario Carafa (1565–1576),Footnote 16 che fece rimuovere anche l'altare «in capite […] sub vocabulo S.ti Paulj de Umbertis»;Footnote 17 nel 1580 il nuovo arcivescovo Annibale di Capua (1578–1595) destinò la cappella a sacrestia,Footnote 18 l'anno dopo la adibì a cappella del seminarioFootnote 19 e fece smontare il monumento funebre di Ayglerius, trasferito a ridosso della cappella Seripando e poi distrutto nel corso del restauro settecentesco del cardinale Spinelli (Strazzullo, Reference Strazzullo1965: 77);Footnote 20 al principio del XVII secolo, il rettore del seminario Carlo Carafa dispose che si adornasse la cappella, al fine di attenuare la sua aura funeraria, «con pitture e collo stucco indorato» (Gisolfo, Reference Gisolfo1667: 126) e che si collocasse sull'altare il trittico di Giovanni Antonio Santoro con la Visitazione della Madonna a santa Elisabetta tra i santi Nicola e Restituta;Footnote 21 in quegli stessi anni il cardinale arcivescovo Alfonso Gesualdo (1596–1603) attribuì alla cappella il titolo di «Visitazione della Beata Vergine» e ratificò la sua assegnazione in uso al seminario (D'Engenio Caracciolo, Reference D'Engenio Caracciolo1623: 28; De Maio, Reference De Maio1958: 161; Strazzullo, Reference Strazzullo1959: 171–2). Divenuta, per volere del cardinale Innico Caracciolo (1667–1685), sede della Congregazione delle Apostoliche Missioni,Footnote 22 acquistò il nome di «Cappella degli Illustrissimi», con riferimento al prestigio, spirituale e intellettuale, dei suoi soci (De Maio, Reference De Maio1958: 162). Si può, in definitiva, affermare che, allo stato attuale, della primitiva cappella siano rimasti in sede solo l'affresco con l’Albero di Jesse, restaurato in anni recenti, e – come vedremo – il monocromo con le Storie della Passione (ignorato finanche dalle fonti antiche), che mi accingo ora a descrivere, non prima di aver fornito le dimensioni esatte della porta nord e del suo architrave. L'altezza degli stipiti è di 180 centimetri, mentre l'architrave misura 35 centimetri di altezza per 115 di larghezza. Le singole scene hanno un'altezza massima di 31 centimetri e misurano la prima 29,5 centimetri di larghezza, la seconda e la terza 23 centimetri e la quarta 30 centimetri.
Racchiuse entro sottili cornici lineari, le scene maggiori si svolgono in ambientazioni essenziali, in cui la mediana di orizzonte delimita la fascia marrone in cui si muovono le figure. I personaggi occupano lo spazio con sicurezza, atteggiandosi in modo naturale e comunicando i propri stati d'animo attraverso una gestualità disinvolta e, a tratti, crudele. A ben guardare, si scopre che il disegno è realizzato direttamente sul marmo a matita ripassata a tempera, applicata con buona probabilità con un pennello di scoiattolo (strumento con cui i miniatori, per l'appunto, ripassavano i disegni a stilo «su carta pecorina»), usato con grandissima padronanza tecnica come rivelano i sottili tratti che descrivono le figure. Simile nell'aspetto a una sinopia, l'opera risente delle vicissitudini storiche che hanno interessato gli ambienti della cappella, in particolare al principio del XVII secolo. Leone de Castris (Reference Leone de Castris1986a: 416) ritiene che le Storie della Passione siano potute riemergere nel corso del restauro strutturale a cui venne sottoposto il duomo negli anni 1969–1972 al di sotto di un vecchio strato d'intonaco, a mio avviso risalente alla fase decorativa disposta da Carlo Carafa.Footnote 23 Pertanto, non è da escludere che l'intonaco, di cui vi è tuttora traccia, abbia compromesso la conservazione dei pigmenti, in un caso facendo virare le tonalità cromatiche, nell'altro assimilando e, di conseguenza, rimuovendo i colori più chiari. Alla luce di ciò sono del parere che siamo in presenza di un'opera compiuta realizzata con una tecnica inusuale e sbrigativa, le ragioni del cui impiego al momento non ci sono date conoscere.
Per quanto nel suo insieme la composizione appare monocroma, da diversi elementi si evince che in origine la superficie, almeno in larga parte, doveva essere policroma. A testimoniarlo sono le cornici, le vesti, le bandiere, gli scudi e gli strumenti del martirio, che serbano ancora memoria di colorazioni in toni di marrone, di rosso e di ocra. A tal proposito, per favorire l'incorporazione dei pigmenti nel marmo quest'ultimo è stato sottoposto a un preventivo trattamento di irruvidimento, mediante sfregamento di materiali abrasivi, come si ricava dalla presenza di leggeri solchi in corrispondenza delle aree segnalate. Purtroppo, nel nostro caso, che rappresenta un unicum nel suo genere, non si può ancora parlare di pittura propriamente ‘su pietra’, che – al pari di molte altre esperienze riconducibili all'arte classica – ha trovato applicazione regolare, con tecniche ben precise, solo a partire dal tardo Rinascimento.Footnote 24 Quanto rimasto dei pigmenti ci consente di identificare la modalità di applicazione, avvenuta forse per mezzo di «pezzuole» imbevute di colore, impiegate solitamente dai miniatori per ombreggiare in modo stemperato e delicato. A sostegno di questa ipotesi si può aggiungere che il de Castris (Reference Leone de Castris1986a: 417) mette in relazione il nostro monocromo proprio con l'operato di alcuni brillanti miniatori: «Vi si avvicina al massimo grado il primo maestro della Bible Moralisée di Parigi, ma per difetto […] alcuni dati di certa calibratura della forma e di scorci di figure farebbero pensare ad episodi di giottismo aulico gradito ad Avignone nel genere del “Maestro del Codice di S. Giorgio” o anche del maestro assisiate delle Vele, se non fosse che nelle loro opere tutto quanto è sempre meno mosso e drammatico».Footnote 25 Utili raffronti per quanto concerne la tecnica e le scelte coloristiche, ma di certo non lo stile, possono essere condotti con le miniature contenute nel libro manoscritto delle Vitae Patrum della Morgan Library di New York (MS M 626, Vitae Patrum (1350–75), fols. 6v, 8r, 8v, 13v, 89v), preziosa testimonianza della Napoli angioina databile tra 1350 e 1375.Footnote 26 Che l'anonimo autore delle Storie della Passione vantasse nel suo bagaglio di competenze artistiche discreta pratica nell'illustrazione dei manoscritti, come previsto nel percorso formativo nelle botteghe dell'epoca, appare chiaro.
Passiamo adesso all'analisi della composizione. Nella prima scena Cristo è, al contempo, spogliato delle vesti, incoronato di spine, percosso e schernito da un manipolo di brulicanti personaggi dalle espressioni sadiche (Fig. 7); in lontananza, sulla sinistra si distingue il profilo di un edificio medievale provvisto di merli (Fig. 8), mentre sulla destra un raggio di luce proveniente dalla sfera celeste – rappresentata nell'angolo nel rispetto della consolidata tradizione medievale – si irradia sul capo del Cristo (Fig. 9). Le allusioni spaziali sono evidenti nel calibrato moto rotante delle posture dei cinque aguzzini intorno alla loro vittima, che appare serenamente rassegnata al suo tragico destino (Fig. 10). Nella seconda scena Cristo, legato per i polsi a una sottile colonna, è flagellato da due sgherri (nelle cui mani si riconoscono i classici flagelli romani laciniati), che flettono i loro busti per infliggere brutali sferzate (Fig. 11). Sorprendente è l'abilità con cui è stato catturato, come in un'istantanea fotografica, il movimento degli aguzzini: quello a sinistra, contraddistinto da una caratterizzazione facciale estremamente naturalistica, è colto nell'atto di scaricare tutta la forza sul flagello che si schianta sulle carni del Cristo (Fig. 12), mentre quello a destra di caricare al massimo grado il colpo, facendo leva sui piedi e ruotando di tre quarti il busto dalla portentosa vigoria plastica (Fig. 13). A dispetto delle molte ferite sanguinanti del torso, il volto del Salvatore, adagiato al cippo del supplizio, appare imperturbabile (Fig. 14). Nella terza scena, con la croce sulle spalle, Cristo è condotto al monte Calvario (Fig. 15); avvinto al collo da una robusta corda, della quale si distinguono finanche le spire di torsione dei fili (Fig. 16), è accompagnato da uno stuolo di armigeri con morioni, divise, bastoni e vessillo romano con la scritta, ancora leggibile, «SPQR» (Fig. 17); a sinistra, un personaggio femminile nimbato, col capo velato e dall'aria affranta, è da identificare con la Vergine. Anche in questo caso non mancano le suggestioni spaziali, dal corteo che ruota intorno al Cristo alla croce in tralice. Nella quarta e ultima scena Cristo viene deposto dalla croce (Fig. 18); il corpo è ancora fissato al legno, la ferita del costato stilla sangue, un uomo – forse Giuseppe di Arimatea – su di una scala è intento a liberare la mano sinistra (Fig. 19), mentre in basso due grotteschi personaggi si provano a divellere il chiodo dai piedi: il primo prendendolo a martellate da dietro, il secondo tirandolo con tutte le sue forze con una tenaglia, al punto di incurvarsi fino a terra per fare leva (Fig. 20). In ragione di questi elementi, anzitutto per la ferita zampillante del costato, praticata – sulla base del testo evangelico – dopo la morte di Cristo,Footnote 27 è perentorio escludere quanto sostenuto dal Leone de Castris (Reference Leone de Castris1986a: 416): e, sulla scia di questi, da Aceto e Vitolo (Reference Aceto and Vitolo2017, I: 128) circa l'identificazione dell'episodio con un presunto «Inchiodamento alla croce». Il corpo, che ricade perfettamente in asse con la croce, è modellato con grande naturalezza, come si evince dalle forme smagrite, dai capelli e dalla barba ordinati, dalle linee pettorali e sub ascellari in tensione, dall'armonioso tratteggio delle costole, dai fianchi rientranti e dal perizoma dai morbidi ricaschi. Sulla sinistra, accanto alla scala, un soldato di profilo con scudo, spada ed elmo integrale regge la lancia con cui ha trafitto il costato del Salvatore; sulla destra una figura femminile nimbata, col volto caratterizzato naturalisticamente e con una lunga e ondulata chioma, è inginocchiata su una gamba, con braccia distese indietro in segno di dolore, in adorazione del Cristo morto (Fig. 21). È Maria Maddalena, che manifesta tutta la sua disperazione. Al suo fianco un altro soldato, di aspetto gentile e in posa frontale, regge con una mano l'elmo e con l'altra la canna con in cima la spugna imbevuta di aceto (Fig. 22). Si rileva l'assenza, del tutto inconsueta, della figura della Vergine dolente, che – come supposto dall'anonimo revisore – potrebbe essere giustificata dalla presenza della sottostante Annunciata. Come nelle precedenti scene, l'ignoto artefice ha dato prova della propria abilità nella rappresentazione degli effetti prospettici, disponendo su più livelli i singoli personaggi, posizionando la scala in tralice e tracciando di scorcio le braccia della Maddalena. Non c’è dubbio che questo sia l'episodio più interessante di tutto il ciclo in esame sul piano dell’inventio, non solo per la singolare postura del Cristo, con braccia alzate, capo ritto e gambe perpendicolari (si tratta, in realtà, di un tardivo esempio di Christus triumphans),Footnote 28 ma soprattutto perché il suo corpo è ancora integralmente appeso alla croce, che per la sua forma a Y ricorda più un albero che lo strumento del martirio prediletto dai Romani, ed è affiancato dai due personaggi con lancia e spugna di norma assenti nelle rappresentazioni della Deposizione. È come se l'artista avesse voluto fondere in un'unica scena (per insufficienza di spazio o per espressa richiesta del committente?) gli episodi della Crocifissione e della Deposizione, non potendoli rappresentare separatamente. Sotto l'architrave marmoreo, sulle mensole d'imposta, troviamo le due scene minori con l’Angelo annunciante, a sinistra, e l’Annunciata, a destra. L'arcangelo Gabriele, dalle grandi ali ancora spiegate, è inginocchiato su una gamba, con la mano sinistra sorregge lo scettro sormontato dal giglio e con la destra saluta la Vergine (Fig. 23). Quest'ultima, colta di sorpresa dal messaggero celeste, è rivestita del suo caratteristico mantello (il maphorion) e siede su uno scranno volgendo, con aria deferente, il capo in basso a sinistra; le mani sono alzate in direzione della soprastante Deposizione. A destra c’è un personaggio genuflesso e a mani giunte (Fig. 24). Si tratta di un alto prelato, con barba, tonsura, casula con collo ad anello e guanti, in atto di indirizzare lo sguardo verso il soprastante crocifisso. La sua descrizione minuziosa lascia intendere che possa trattarsi di un ritratto, che potrebbe verosimilmente identificare il committente dell'opera. Le mani alzate della Vergine Annunciata manifestano con evidenza la volontà di intercedere presso il figlio in favore del prelato penitente,Footnote 29 sulla cui identità – in mancanza di documenti coevi superstiti – al momento non è possibile azzardare alcuna ipotesi.
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Fig. 7. Cristo schernito e spogliato delle vesti, disegno a monocromo, Napoli, duomo, cappella «degli Illustrissimi». (T. De Giorgio.)
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Fig. 8. Particolare della Fig.7. (T. De Giorgio.)
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Fig. 9. Particolare della Fig.7. (T. De Giorgio.)
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Fig. 10. Particolare della Fig.7. (T. De Giorgio.)
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Fig. 11. Flagellazione, disegno a monocromo, Napoli, duomo, cappella «degli Illustrissimi». (T. De Giorgio.)
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Fig. 12. Particolare della Fig.11. (T. De Giorgio.)
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Fig. 13. Particolare della Fig.11. (T. De Giorgio.)
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Fig. 14. Particolare della Fig.11. (T. De Giorgio.)
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Fig. 15. Andata al Calvario, disegno a monocromo, Napoli, duomo, cappella «degli Illustrissimi». (T. De Giorgio.)
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Fig. 16. Particolare della Fig.15. (T. De Giorgio.)
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Fig. 17. Particolare della Fig.15. (T. De Giorgio.)
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Fig. 18. Deposizione, disegno a monocromo, Napoli, duomo, cappella «degli Illustrissimi». (T. De Giorgio.)
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Fig. 19. Particolare della Fig.18. (T. De Giorgio.)
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Fig. 20. Particolare della Fig.18. (T. De Giorgio.)
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Fig. 21. Particolare della Fig.18. (T. De Giorgio.)
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Fig. 22. Particolare della Fig.18. (T. De Giorgio.)
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Fig. 23. Angelo annunciante, disegno a monocromo, Napoli, duomo, cappella «degli Illustrissimi». (T. De Giorgio.)
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Fig. 24. Annunciata e presunto offerente, disegno a monocromo, Napoli, duomo, cappella «degli Illustrissimi». (T. De Giorgio.)
Dall'attento esame delle Storie della Passione emergono significativi debiti compositivi e stilistici nei confronti della cultura figurativa senese, a livello di assetto iconografico, di caratterizzazione dei personaggi e di organizzazione dello spazio. Prime spie di questo debito, in particolare verso l'innovativo Simone Martini del soggiorno avignonese, sono l'affollamento, lo spiccato senso del movimento e la concitata narratività, insieme alla ricerca della resa tridimensionale delle cose e alla scelta di portare in primo piano le scene a spese del paesaggio. A questo si aggiunga la consistenza salda e tornita delle figure, accentuata dalla politezza del tratto grafico affine al gusto dell'oreficeria, che denota la presa di possesso della realtà da parte dell'anonimo pittore, indulgente in particolari dal forte naturalismo. D'altra parte, come rilevato dal Leone de Castris (Reference Leone de Castris1986a: 417), «sia il patetismo accentuato sia altre caratteristiche […] spingono verso quella realtà più gotica che è solo di Simone Martini fra il polittichetto Orsini, la miniatura del Virgilio e la sinopia di Notre-Dame-des-Doms».
Ma procediamo con ordine all'esame dei singoli casi concreti. Nel Cristo schernito e spogliato delle vesti la varietà delle pose conferisce alla scena un equilibrato effetto corale. Nel trattamento fisionomico dei volti degli aguzzini, nei loro sguardi torvi e accigliati, nell'intensa gestualità delle mani, nell'elegante modellato dei panneggi, nella profondità dei piani e nelle evidenti connessioni con la cultura giottesca si scorgono i tratti distintivi del moderno linguaggio martiniano. A conferma dello sviluppo organico e della continuità dei temi adoperati da Simone e dai suoi «chompagni» di bottega si deve tenere presente che quell'attenzione per la resa veritiera della storia sacra, che li condusse ad approfondire la descrizione psicologica dei singoli personaggi, si era manifestata già tra 1315 e 1317, quando erano attivi nella cappella di San Martino della basilica inferiore di San Francesco ad Assisi (anni in cui Simone era impegnato anche con la Maestà del Palazzo Pubblico di Siena e col San Ludovico di Tolosa di Capodimonte) (Aceto, Reference Aceto, D'Urso, Perriccioli Saggese and Solvi2017, con bibliografia precedente). Nell'episodio con la Flagellazione il modo di rappresentare Cristo legato per i polsi a un'esile e alta colonna è di concezione tipicamente senese; si pensi, infatti, alla tavola di analogo soggetto dipinta da Guido da Siena intorno al 1270 e conservata al Lindenau-Museum di Altenburg, che sul corpo del Redentore mostra – come nel nostro caso – le ferite inferte dai flagelli (Fig. 25) (Garrison, Reference Garrison1949: n.662; Giorgi, Reference Giorgi and Bagnoli2003: 50-55). Il successo di questo motivo iconografico è attestato anche dalla tavola di Ugolino di Nerio della Gemäldegalerie di Berlino, databile tra 1320 e 1325 (Fig. 26), e dall'affresco attribuito al fantomatico Barna da Siena,Footnote 30 nella collegiata di Santa Maria Assunta a San Gimignano (Bagnoli, Reference Bagnoli2009). A favore della piena conoscenza da parte del nostro artista delle novità giottesche depone l'acuto tre quarti in rotazione. Nell’Andata al Calvario l'impianto compositivo riecheggia da vicino quello delle tavole di analogo soggetto dipinte a Siena, a partire dalla prima metà del Trecento, dai Memmi e, in special modo, da Ugolino di Nerio. Il paragone con lo scomparto di predella della pala dell'altare maggiore di Santa Croce a Firenze di Ugolino, databile intorno al 1320–1325 e conservato alla National Gallery di Londra, si fa del tutto stringente: affine è il modo di concepire la scena, di disporre i personaggi, di articolare i gesti, di panneggiare e di descrivere con minuzia singoli particolati come le armature, gli elmi o la corda annodata al collo di Cristo (Fig. 27) (Gordon, Reference Gordon2011: NG 1189).Footnote 31 Nella silhouette snella e allungata della Vergine, che intesse un muto e angoscioso dialogo col figlio, si riconoscono le slanciate ed eleganti fisionomie delle figure femminili dolenti dipinte dai pittori ducceschi, che tanto successo ebbero tra gli scultori lignei senesi a partire dalla prima metà del XIV secolo nella resa del soggetto dell’Annunciata. I morioni ricalcano quelli dipinti da Simone Martini nell'episodio della Rinuncia alle armi della cappella di San Martino nella basilica inferiore di Assisi; anche Duccio fa ampio ricorso a questa tipologia di elmi nella Maestà dell'Opera del Duomo di Siena, ma la traduzione prospettica che ne offre è ben distante dai pregevoli esiti raggiunti dal suo celebre allievo. Nell'episodio con la Deposizione i personaggi, ancora una volta, risentono fortemente dello stile martiniano. La Maddalena che, ai piedi del Crocifisso, distende disperata le braccia all'indietro (le origini compositive di questa figura di stile vanno rintracciate nel san Giovanni del Compianto sul Cristo morto dipinto da Giotto tra 1303 e 1305 sulle pareti della cappella degli Scrovegni)Footnote 32 ci consente di istituire utili confronti con il medesimo personaggio che nelle tavolette con le Storie della Passione del cosiddetto «Polittico Orsini» di Simone Martini (la cui datazione, a tutt'oggi, è tra le più problematiche del catalogo martiniano e non trova concorde la critica)Footnote 33 è rappresentato per ben tre volte con una lunga chioma ondulata e con le mani al cielo in segno di disperazione. Il soldato alle spalle della Maddalena, che regge la canna con la spugna imbevuta di aceto, riecheggia nella resa plastica del corpo, nel panneggio e nei lineamenti del volto dall'espressività gentile, con labbra pronunciate, naso allungato e capigliatura con lieve stempiatura, i tratti dei tipici personaggi martiniani, in particolare del San Luigi di Francia e del Sant'Enrico di Ungheria affrescati rispettivamente nel sottarco della cappella di San Martino e sulla parete di fondo del braccio destro del transetto della basilica inferiore di Assisi e, ancor più, del Sant'Ansano del Metropolitan Museum, da riferire attorno al 1320 (Pierini, Reference Pierini2000: 122). I due goffi personaggi intenti a estrarre il chiodo dalle carni di Cristo, invece, richiamano alla mente gli atteggiamenti del giovane che assolve lo stesso compito nella Deposizione dalla croce del «Polittico Orsini» (Fig. 28) e del contadino e del pastore miniati, tra terzo e quarto decennio del Trecento, da Simone nell’Allegoria Virgiliana della Biblioteca Ambrosiana di Milano, in cui il primo è ritratto in atto di potare le viti con un grosso coltello e il secondo di mungere, seduto a terra, pecore e capre (per quanto diverse siano espressività e mansioni dei personaggi, identico è il loro dinamismo, Fig. 29). Nella scena minore con l’Annunciazione con offerente gli indirizzi di stile sono inquadrabili con evidenza sempre all'interno di quelli maturati in ambito senese. La posa della Vergine, con entrambe le mani sollevate, è frutto di un'originale interpretazione del tema mentre la scomposizione del motivo iconografico testimonia dell'abilità dell'artista nell'aggirare gli ostacoli imposti dalle mensole dell'architrave.
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Fig. 25. Guido da Siena, Flagellazione, tempera e oro su tavola, Altenburg, Lindenau-Museum. (Wikimedia, pubblico dominio.)
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Fig. 26. Ugolino di Nerio, Flagellazione, tempera e oro su tavola, Berlino, Staatliche Museen Gemäldegalerie. (Wikimedia, © Sailko.)
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Fig. 27. Ugolino di Nerio, Andata al Calvario, tempera e oro su tavola, Londra, National Gallery. (Wikimedia, © Sailko.)
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Fig. 28. Simone Martini, Deposizione dalla croce, tempera e oro su tavola, Anversa, Koninklijk Museum voor Schone Kunster. (Wikimedia, pubblico dominio.)
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Fig. 29. Simone Martini, Allegoria virgiliana, miniatura, dal Vergilius cum notis Petrarcae, MS Ambrosiano A79 inf. (ex S.P. 10/27), c.1v. Milano, Biblioteca Ambrosiana. (Wikimedia, pubblico dominio.)
Ma veniamo ora alla forma a Y della croce nell'episodio con la Deposizione. Tale conformazione, che vincola Cristo a essere crocifisso con le braccia tese in alto, ebbe grande fortuna nell'ambiente artistico senese. Ad attestarlo sono alcuni notevoli esempi duecenteschi, quali la Crocifissione scolpita da Nicola Pisano per il pulpito della cattedrale (1265–1268) e il Crocifisso intagliato da suo figlio Giovanni – secondo Seidel (Reference Seidel1971: 22) nel decennio 1270–1280, secondo Carli (Reference Carli1979: 55-56) intorno al 1285 – e conservato nel museo dell'Opera del Duomo, e trecenteschi, quali la tavola con la Crocifissione con san Francesco di Ugolino di Nerio della Pinacoteca Nazionale (1315–1320)Footnote 34 e l'anonima Crocifissione incisa su una lastra di marmo proveniente dalla chiesa di San Pellegrino alla Sapienza e attualmente esposta in Pinacoteca (1310–1320) (Cioni, Reference Cioni and Bagnoli2003: 508–11). Le ragioni per cui nella seconda metà del Duecento, e non prima, Cristo inizia a essere rappresentato crocifisso su un albero dall'insolita forma di Y sono da rintracciare nell'istituzione nel 1264 a Orvieto della solennità del Corpus Domini (Francovich, Reference Francovich1938; Bergmann, Reference Bergmann2001; Hoffmann, Reference Hoffmann2006: 95–8, 107–124). Prima ancora dei componimenti redatti da Tommaso d'Aquino su richiesta di papa Urbano IV (1261–1264), furono le esortazioni agostiniane ad assegnare alla croce di Cristo le sembianze di un albero. Nel De cataclysmo, discorso di carattere polemico contro le correnti ereticali del tempo, il vescovo di Ippona istituisce un'interessante correlazione tra la radice di Jesse (Is. 11,1) e l'albero della croce, sostenendo che questo sia «fiorito» da quella: «Ipsa illa virga crux, ipsa illa virga quae floruit ex radice Jesse» (PL XL: col. 696). Nelle Enarrationes in psalmos Agostino sviluppa ulteriormente il concetto. Sulla radice ebraica di Jesse, simbolo della regale predestinazione genealogica del Messia, si è innestato l'albero del cristianesimo, dal quale sono stati spezzati i rami colpevoli di infedeltà: «Ergo de radice Patriarcharum dicit fractos quosdam ramos propter infidelitatem» (PL XXXVI: col. 915). Ne consegue non solo la stretta connessione tra i due simboli cristologici della radice di Jesse e dell'albero della croce, ma anche che la raffigurazione di quest'ultimo nelle Storie della Passione doveva avere lo scopo di esaltare la centralità del “frutto” eucaristico per l'umana salvezza. Ipotesi confortata dalla presenza del ritratto del presunto committente ecclesiastico con sguardo supplice in direzione del Cristo crocifisso, dalla stessa destinazione funeraria della cappella, al cui interno si svolgeva regolare celebrazione del rito eucaristico «pro animabus» dei vescovi sepolti, e dalla funzione di sacrestia del piccolo vano, sulla cui porta di ingresso campeggia il nostro monocromo, dove il sacerdote indossava i paramenti liturgici e si predisponeva a presiedere il sacrificio eucaristico «in persona Christi».
Assunto che, sulla base delle valutazioni fin qui condotte, le Storie della Passione napoletane trovano nella produzione martiniana il loro più valido termine di paragone, non resta che esaminare le opere del periodo avignonese di Simone, iniziato entro il 1336, per vagliare il grado di rapporto con esse. Cominciamo col dire che nel secondo quarto del Trecento, vale a dire quando Benedetto XII (1334–1342), subito dopo la sua elezione al soglio petrino, manifestò l'urgenza di una degna e imponente dimora per il pontefice, nel cantiere del Palais des Papes di Avignone, e più in generale nella Francia meridionale, si faceva sempre più pressante la richiesta di repertori figurativi che, nel restituire con grande efficacia i moti interiori dell'animo attraverso un'intensa indagine psicologica, fossero in grado di esaltare – come tipico dell'arte gotica d'Oltralpe – la linea sinuosa delle figure, con un'attenzione specifica allo stile raffinato prediletto negli ambienti cortesi provenzali. L’Allegoria virgiliana (Fig. 29), gli affreschi dell'atrio della cattedrale di Notre-Dame-des-Doms di Avignone (Fig. 30) e il Ritorno di Gesù dal tempio (Fig. 31) sono le opere certe che Simone Martini realizzò in Provenza, indispensabili per l'individuazione dei suoi tardi caratteri stilistici. Nella prima, miniata tra 1338 e 1341 su un codice contenente le opere di Virgilio commentate dal grammatico latino Mario Onorato Servio di proprietà di Francesco Petrarca, Simone rinuncia a quei valori di spazialità presenti nelle opere del periodo senese in favore di una composizione prettamente narrativa, che nelle linee falcate dei personaggi, nell'articolato dinamismo espressivo e nella raffinatezza dei particolari consente di intravedere i prodromi del gotico internazionale. Le posture arcuate di Enea e di Servio, insieme alla minuziosa descrizione della scena idilliaca, denotano la piena assimilazione da parte dell'artista dei modi della tradizione gotica d'Oltralpe, che verranno riproposti negli affreschi con l’Eterno benedicente e con la Madonna dell'umiltà col Bambino, gli angeli e il committente Jacopo Stefaneschi (Capron, Reference Capron2017, con bibliografia precedente), databili fra il 1340 e il 1343 e conservati nel Musée du Palais des Papes di Avignone. Il ciclo ad affresco, oggi pressoché perduto, testimonia della libertà della tradizione gotica, che portò Simone a ritrarre il cardinale Stefaneschi con estrema fedeltà al dato naturale e a formulare il nuovo tipo iconografico della Madonna dell'umiltà, con la Vergine seduta su di un cuscino posato direttamente a terra. L'iconografia, che tanta fortuna ebbe nell'Europa mediterranea da essere impiegata per la rappresentazione della Madonna, con e senza Bambino, la si ritrova nel Ritorno di Gesù dal tempio della Walker Art Gallery di Liverpool, unica opera avignonese firmata e datata da Simone (1342). L'inusuale soggetto del colloquio tra Cristo bambino e i genitori palesa l'innovativo modo di descrivere i vincoli d'affetto tra i personaggi attraverso la loro intensa espressività facciale e gestuale: lampante è il contrasto tra gli atteggiamenti contrariati di Giuseppe, dalla postura ricurva simile a quella dell'Enea del codex ambrosiano, e di Maria, seduta in posa “umile” sul cuscino a terra, e quello indifferente alla paternale del fanciullo divino.
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Fig. 30. Simone Martini, Madonna dell'umiltà col Bambino, gli angeli e il committente Jacopo Stefaneschi, affresco e sinopia, in deposito da Notre-Dame-des-Doms, Avignone, Musée du Palais des Papes. (Flickr, Rfzappala.)
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Fig. 31. Liverpool, Walker Art Gallery, Simone Martini, Ritorno di Gesù dal tempio, tempera e oro su tavola. (Wikimedia, Google Art Project, pubblico dominio.)
Dopo aver passato in rassegna le opere di sicura matrice provenzale di Simone si comprenderanno meglio le ragioni per cui le Storie della Passione manifestano – come rilevato da Leone de Castris (Reference Leone de Castris1986a: 416-17) e da Bologna (Reference Bologna and Romanini1991) – riflessi stilistici avignonesi, riscontrabili nelle linee rabescate, nell'efficacia narrativa e nella piena trasposizione pittorica dei caratteri fisiognomici individuali, dei moti psicologici e dei vincoli affettivi. Alla luce delle valutazioni fin qui condotte, appare verosimile ritenere che per un artista operante nel cantiere di Avignone, specie se dotato come il nostro, fare sfoggio nella capitale angioina delle più aggiornate formule stilistiche dovesse rappresentare un'opportunità da cogliere al volo.
Al termine della nostra disamina potremmo essere tentati, in virtù dell'alta qualità dell'opera e dei raffronti positivi con il corpus martiniano, dall'assegnare un nome all'anonimo artista, che ci limiteremo a chiamare «maestro delle Storie della Passione del duomo di Napoli». Quel che per certo possiamo dire è che si tratta di un valente artista che ha conosciuto per via diretta la cultura duccesca delle origini, che ha avuto modo di apprendere le novità di Giotto, che ha aderito al gusto più moderno della pittura martiniana, che era al corrente delle diverse esperienze senesi e avignonesi e che negli anni trenta e quaranta del Trecento (per quanto la datazione del monocromo non possa essere assestata sulla solida base di documenti coevi superstiti) potrebbe aver operato al servizio della corte angioina o della curia napoletana, durante l'episcopato di Giovanni Orsini (1327–1358).